sabato 4 maggio 2013

Un caffè che ti fa fare le bolle di sapone

«Mi sto rendendo conto di come è vivere in Italia , dice un ragazzo. «In Italia cambia se sei bianco o nero. Non avevo mai visto una cosa del genere prima. In Africa non è un problema come qui, se sei l’unico bianco in mezzo a neri. Invece mi rendo conto che qui è diverso. Che la gente si comporta diversamente se sei bianco o nero. Il colore della pelle è l’unica cosa che vede la gente qui. Non importa chi sei, perché sei qui, cosa stai facendo. Eppure sotto la pelle, sotto i diversi colori della pelle, il sangue è uguale. Per tutti. Lo dice anche Bob Marley. Credo che il problema più grave è questo: la gente è razzista. La gente, ma anche tutti, la polizia, le istituzioni. Solo perché io sono nero e tu sei bianco. È incredibile, ma è così. Si vede anche se guardi per esempio chi fa i lavori importanti. Perché in Italia non ci sono poliziotti neri? O persone che lavorano al Comune? O persone importanti? In realtà anche sull’autobus non ho mai visto un autista nero, chissà perché. I neri non possono fare nessun lavoro? Credo che il problema, in Italia ma anche in Europa per quello che ho visto con i ragazzi che sono partiti, sia un problema di discriminazione. Discriminazione e razzismo. La gente non vuole saperne niente, è ignorante, disinteressata. Solo per il colore della pelle. Si sono dimenticati che siamo uguali, tutti uguali. Che il sangue è lo stesso. Che se togli la pelle siamo tutti uguali».

E poi, un’altra voce: «Parlano tutti dell’Italia come Paese avanzato, dell’Europa come la parte del mondo che lavora e produce, dove si vive bene. Ma da fuori non è così, in Libia non sono mai stato guardato in modo diverso perché sono nero. In Libia non ho mai visto tante persone dormire in strada, come invece vedo nella stazione di Padova. E così nemmeno nel mio Paese. In Africa non c’è l’indifferenza che c’è qui. Qui la gente che passa in strada e vede qualcuno che dorme fuori non fa niente. Nessuno mi aveva detto che sarebbe stato così difficile, e non perché non ci sono possibilità, ma perché non ci vogliono vedere, non ci vogliono aiutare. Aiutarci non è darci soluzioni che vanno bene adesso e tra un mese scadono. Non è fare finta che vada tutto bene, mentre noi, a vent’anni, non sappiamo nulla del nostro futuro. Aiutarci non è trattarci come se fossimo pericolosi. Ma sembra che questo sia troppo difficile da capire, anche per le persone comuni, hanno paura di noi». Chi parla è un ragazzo ghanese; ha perso la sua famiglia a vent’anni, ha lavorato in Libia fino a quando è riuscito a sopravvivere là. Poi, dopo tre giorni in mare, tre giorni di paura e di stenti, è arrivato in Italia.

Febbraio 2013. Si dichiara la definitiva conclusione di un’“Emergenza”. Come se la vita delle persone coinvolte potesse rimanere sospesa, fuori da ogni responsabilità. Esistenze rese invisibili, cancellate, nascoste. Si dichiara concluso un periodo e si citano numeri, le spese sostenute dallo Stato italiano per far fronte alla cosiddetta “Emergenza Nord Africa”. Come se il fatto di parlare di grandi cifre fosse di per sé una garanzia dell’autenticità della volontà, da parte delle istituzioni italiane, di aiutare, tutelare, proteggere, risolvere. Eppure non è così lineare come sembra. Eppure, nonostante diversi tentativi di prendere la parola, chi doveva essere il destinatario dell’Emergenza non ha mai potuto parlare. Eppure i «principi di efficienza, efficacia ed economicità» a cui le istituzioni si sono rifatte non sono stati in grado di gestire la complessità che la situazione ha rappresentato. Ostacolare le relazioni, ammutolire, reprimere, rallentare la presa di consapevolezza: questo ha significato il disinteresse, l’indifferenza di due anni, il silenzio totale dei media. Eccetto per i commenti finali di ordine meramente economico, in quanto non si è letto un articolo, negli ultimi mesi (quando la situazione era troppo eclatante e rumorosa per continuare a non parlarne), che non facesse riferimento alle strepitose spese che l’«accoglienza» ha implicato. Sono mancate invece analisi di carattere più generale sui rapporti tra Italia e Libia, per esempio; sui patti firmati dai nostri premier e poi tenuti segreti; sulle volontà dei rispettivi governi; sui retroscena del ‘post-Primavera araba’. Ma anche sugli effetti collaterali, non indifferenti, del nostro modello di sviluppo; sul nostro stile di vita, centrato sul consumo, dato per scontato al punto da costituire un diritto: il diritto di consumare senza pensare, il diritto di esistere per consumare. Quello stesso stile di vita che legittima distinzioni arbitrarie tra persone degne di essere chiamate tali e persone invisibili.
«Un richiedente asilo si farebbe tagliare una mano pur di non farsi fermare dalla polizia italiana», diceva M., immigrato tunisino che vive in Italia da una decina d’anni, in una discussione sull’essere stranieri in Italia. M. deve saperne molto, penso mentre lo ascolto. Deve averne sentite tante di storie di persone obbligate a rimanere nell’ombra per non essere definite illegali e allontanate dal nostro Paese. Lui stesso ci è passato. Ma la condizione di richiedente asilo, più diffusa di quanto ci aspettiamo, non viene raccontata dai giornali, non ne sentiamo parlare in TV. È una condizione paradossale, dall’inizio alla fine, fatta di contraddizioni e ipocrisie. E il silenzio creato attorno non sembra propriamente casuale.
È un pomeriggio d’inverno, di quelli in cui il cielo bianco non lascia filtrare raggi di sole. Scambiamo qualche parola sorseggiando un caffè solubile in bicchieri di plastica blu in cui è rimasto del detersivo per piatti. Alcune frasi di quel pomeriggio, che mi annoto non appena ci salutiamo. Sembrano troppo preziose per lasciarle andare. Per me saranno ciò che ha dato colore al pomeriggio del caffè con le bolle di sapone.